La Scrofa Lanuta

Il cinghiale, simbolo di forza e guerra nelle tradizioni celtiche, era venerato per la sua resistenza e associato a rituali, leggende e celebrazioni. Presente in numerose rappresentazioni artistiche, incarna il legame tra la natura e il divino.

Descrizione

IL CINGHIALE, SIMBOLO DI FORZA E SAPIENZA

Il cinghiale (moch in gallico) godeva di particolare prestigio presso le popolazioni celtiche: esso assumeva un valore simbolico di carattere magico-religioso, connesso sia al significato della guerra e della caccia, sia a quello della vita nell’Altro Mondo e a suoi aspetti rituali e conviviali (ad esempio i festini delle divinità che vi dimoravano). Forme di culto nei confronti degli animali selvatici sono chiaramente comprensibili per la religiosità celtica la cui essenza era il riconoscimento dell’elemento divino in tutti le molteplici manifestazioni della natura, negli alberi, nell’acqua, nelle montagne e nel sole: era spontaneo per gli animali selvatici, che circondavano l’uomo celtico in una società fondamentalmente rurale, essere oggetti di reverenza in relazione alle loro qualità Il cinghiale appare spesso sia nei racconti celtici medievali, come animale magico-divino coinvolto in cacce rituali durante le quali la loro invincibilità è messa duramente a prova, sia nell’evidenza archeologica risalente all’età del Ferro (ca. 900 a.C.-1 a.C.). Per la sua furia quando carica, resistenza e irriducibilità, il cinghiale è un naturale simbolo di guerra, apprezzato da una società in cui la condizione di belligeranza continua era una costante e in cui la classe guerriera godeva di autorità e prestigio. È significativo che in tutta la sua iconografia, costituita da statuette in bronzo di varie dimensioni, insegne militari, rappresentazioni su monete e fibule, tale animale è sempre raffigurato con le setole del dorso ritte, proprie del cinghiale quando carica, ed enfatizzate. L’impeto del cinghiale era il furor estatico (aristharta) di ispirazione divina che possedeva i guerrieri celti durante i loro assalti; guerrieri che erano soliti irrigidirsi i capelli con una poltiglia a base di calce proprio a imitazione della cresta del cinghiale (gli eroi della saghe medievali irlandesi, tra i quali Chu Chulainn, avevano i capelli così dritti che sulle loro punte si sarebbero potute infilzare delle mele). Lo scrittore latino Tacito parla della tribù germanica degli Estii, le cui genti “come simbolo della loro fede religiosa portano amuleti a forma di cinghiale: questi, protezione da ogni pericolo al posto delle armi, rendono il fedele della dea sicuro anche in mezzo ai nemici” (Germania, 45). È dunque forse per questo significato apotropaico che il cinghiale diventa a partire dal V secolo a.C., con gli uccelli acquatici e i mostri umano-animali-vegetali, uno dei soggetti preferiti nelle fibule del periodo La Tène (450 a.C.). Un cinghiale stilizzato appare sullo scudo rettangolare costituito da una placca di bronzo con estremità arrotondate, decorata con incrostazioni di corallo, del II secolo a.C. rinvenuto nel fiume Witham presso Lincoln. Gli elmi dei guerrieri recavano superiormente delle statuine di cinghiale, come mostra la decorazione a sbalzo di una placca del calderone di Gundestrup in cui appare una teoria di cavalieri con il cinghiale dalle setole dorsali erette e suonatori di carnyx, la tromba di guerra, terminante con una mostruosa figura di testa di cinghiale. Alcune delle statuette di cinghiale ritrovate in diversi contesti potrebbero proprio essere state fissate in origine su un elmo, come i due esemplari da Hounslow, in Inghilterra, lunghe 4,5 e 7,5 cm. e datate al III-I secolo a.C. Straordinaria è poi l’insegna militare costituita da una lamina dorata in bronzo battuto, lunga ben 55 cm., attribuibile al II-I secolo a.C. e ritrovata su una spiaggia alla foce della Gironda, a Soulac-sur-Mer (Francia) nel 1989, dove venne smontata e sepolta ritualmente. Molte statue a forma di cinghiale sono state trovate in tutta l’Europa celtica e gli esemplari più notevoli provengono da Bata (Ungheria), Neuvy-en- Sulias (Francia) e Praga-Sarka (Repubblica Ceca). Il cinghiale è anche simbolo di caccia, essendo una delle prede preferite di questa pratica in cui si stabiliva un rapporto particolare tra il cacciatore e l’animale: non è un caso che il cervo, il cinghiale e l’orso abbiano tutti, per i Celti, divinità associate. Il notevole gruppo di statuette bronzee reto-celtico di Balzers (Liechtenstein) rinvenuto in un deposito votivo, presenta figure umane di cacciatori o divinità con un cervo e un cinghiale. Nei testi vernacolari medievali dei Celti delle Isole britanniche, si trovano cinghiali magici dalle capacità soprannaturali, spesso conducenti il cacciatore nell’Altro Mondo (il sidh dei testi irlandesi): nel racconto gallese dei Mabinogion, Culwhch e Olwen, Twrch Trwyth è un re trasformato da Dio in un gigantesco e distruttivo cinghiale per via della sua malvagità ed è affrontato da Artù. Nella saga irlandese dei Feniani, l’eroe Diarmad ha un fratello di latte che assume le sembianze di un cinghiale: viene da questo cacciato, trovando però la morte. Il tema qui adombrato della metamorfosi o mutazione da forma umana e animale trova vivide rappresentazioni nell’arte celtica del periodo La Tène, dove le forme vegetali, umane e animali sono sapientamente mescolate dagli artisti celtici sui loro manufatti metallici dando origine a forme mostruose caratterizzate dall’allusività e dall’ambiguità interpretativa. Ma il cinghiale (o il maiale) è associato anche a festeggiamenti e banchetti, molto importanti nella società celtica, specialmente quelli che si svolgono nell’Altromondo. Tale connessione risulta ben evidente sia dalla letteratura, classica e vernacolare, medievale, sia dalle evidenze archeologiche. Strabone (IV, 4.3) dice che i Celti prediligevano carne fresca o salata di maiale e che i maiali delle Gallie erano grandi e forti. Diodoro Siculo e Posidonio parlano del “boccone del campione”, ovvero di combattimenti fra commensali che si contendevano la coscia riservata al più forte… Anche la tradizione irlandese mette al centro dei banchetti regali o divini il maiale. Nel Festino di Bricriu una contesa per il miglior pezzo ha luogo fra gli eroi convenuti. Nei convivi dell’Aldilà, presieduti da divinità, la carne di maiale è divisa e consumata, ma il giorno successivo è magicamente reintegrata. Nel Ciclo dell’Ulster, il re del Lagin organizzò un banchetto dove fu portato un grande maiale da macellare, ma i suoi ospiti, di due regni diversi, reclamarono a gran voce il diritto di scannarlo, ricordando agli altri la gloria delle proprie imprese: la questione si risolse solo con una battaglia. L’archeologia mostra in diverse sepolture celtiche la deposizione di offerte alimentari, fra cui prevalgono le parti di maiale. Nel sito di Gorge-Meillet, nella Marna francese, in una doppia sepoltura di inumati di inizio IV secolo a.C., relativa a personaggi di rango, un giovane individuo fu deposto con un carro a due ruote, panoplia, oggetti da toilette, contenitori per vino, gioielli e un arto di maiale. In Inghilterra, le sepolture di King’s Barrow e di Garton Slack, relative alla cultura di Arras, mostrano inumati di rango sepolti con carri a due ruote e teste di maiale Il cinghiale era sacrificato anche ritualmente. Nel santuario dei Bellovaci di Gournay-sur-Aronde, dove furono inumati anche dei cavalli, piccoli maiali e pecore furono macellati e consumati in pasti rituali. A Sopron (Ungheria) tale rituale è evidenziato dalla sepoltura di un cinghiale intero in una tomba. E un cinghialetto fu deposto, forse come offerta di fondazione, a Chelmsford, nell’Inghilterra celto-romana; sempre in questa regione, a Norfolk, nel tempio gallo-romano di Ashill, ciascuna base dei quattro pilastri della cella rettangolare interna aveva una buca in cui si trovarono ossa di cinghiale e di uccelli.
LA CACCIA AL CINGHIALE MAGICO I Mabinogion raccolgono undici storie gallesi e rappresentano l’esempio artisticamente più valido della letteratura celtica, che dopo quella greca e latina, è la più remota tra le europee: benché i manoscritti più vecchi non scendano sotto l’XI secolo, i testi tramandati risalgono a tradizioni orali ben più antiche, pre-cristiane e pre-romane. In Culhwch e Olwen l’eroe Culhwch (letteralmente “porcilaia”, a ricordo del luogo in cui nacque) si reca dal re Artù, suo cugino (un Artù verace non ancora contaminato dalla successiva influenza anglonormanna e francese ), per cercarne l’aiuto nell’impresa impostagli dalla matrigna di conquistare la bella Olwen, figlia di Yspaddaden, il re dei Giganti: Olwen infatti deve superare una serie di prove quasi impossibili. La parte centrale del racconto è la caccia al cinghiale Trwyth e al suo doppio Yskithyrwynn. Gli eroi devono strappare un pettine e una forbice posti fra le orecchie del cinghiale, da portare a Yspaddaden affinché egli possa pettinarsi.È un racconto pieno di elementi soprannaturali in cui convergono il tema della caccia all’animale magico, la tradizione legata al cinghiale divino e al dio celtico Moccus. Culhwch è egli stesso un maiale: tale è il suo nome ed è partorito da sua madre quand’ella si spaventa per la visione di un branco di maiali. La sua associazione a un cinghiale magico è significativa. Culhwch appare come un giovane dio/eroe, dotato di poteri speciali (l’urlo che dà la morte e la capacità di provocare infertilità nelle donne). Nel racconto è ricorrente il simbolo del pettine e l’azione della pettinatura (Artù esaudisce la richiesta di Culhwch di essere pettinato da costui…), elementi che si collegano ai capelli e alla loro cura, simboli di fecondità e prosperità, esattamente come la cresta di setole ritte dei cinghiali, tanto cara ai Celti (un secondo significato associato a questo simbolo, oltre a quello guerre
IL CINGHIALE NELL'ARTE CELTICA I CARNYX A TESTA DI CINGHIALE DI TINTIGNAC A Tintignac, nel Limousin, in un sito di epoca gallo-romana recenti scavi (2001-05) hanno messo in luce un santuario di epoca La Tène. Entro una piattaforma centrale circolare, spazio sacro, è stata messa in luce una fossa poco profonda che ha restituito un gran numero di frammenti più o meno grandi, in ferro e bronzo (ca. 500), tutti della seconda età del Ferro. Si tratta di un ricco deposito cultuale da cui sono emerse spade lateniane con foderi, punte di lancia, un umbone di scudo, un calderone, una decina di elmi (di cui uno rituale a forma di cigno) e molti altri oggetti. Una trentina di frammenti sono stati attribuiti a carnyx, le grandi trombe da guerra dei guerrieri celti. Tali strumenti erano portati verticalmente, con un padiglione a testa d’animale all’estremità superiore, dalle cui fauci il suono passava. I carnyx, prima di tale straordinario ritrovamento, erano essenzialmente conosciuti attraverso raffigurazioni su monete galliche e denarii di età cesariana o su monumenti trionfali alloromani. Le precedenti scoperte di carnyx si limitavano complessivamente a una dozzina di frammenti. A Tintignac sei pezzi sono per certo parti di trombe da guerra a forma di testa di cinghiale, con un settimo a testa di serpente. Quattro teste di cinghiale sono realizzate con lamine in bronzo martellinate e assemblate, altre due in bronzo fuso. I padiglioni sono simili, rappresentanti ciascuno metà faccia di cinghiale. Le zanne sono sporgenti, relativamente sviluppate. Dietro agli occhi, due fori circolari corrispondono ai punti di fissaggio delle orecchie. Uno dei padiglioni è stato ritrovato ancora in connessione con una di esse. L’orecchia, la cui estremità tubolare entra nella testa, si sviluppa in una larga foglia bronzea munita d’una cavità mediana lunga più di 30 cm. Altre quattro lamiere, orecchie di altrettanti carnyx, hanno forma analoga, due quasi intere e lunghe rispettivamente 36 e 41 cm. Appendici così smisurate erano finora sconosciute. Il suono che usciva dalla gola doveva propagarsi attraverso i fori delle orecchie ed essere convogliato in un canale. Si può perciò seriamente ipotizzare una funzione acustica dei padiglioni acustici, nei quali movimento e vibrazione modulavano il suono emesso. I carnyx sono dotati di un asse dorsale in lamiera di bronzo traforata. In connessione con essa sono state ritrovate 6 parti decorate di cresta. Le teste sono dotate di un grugno piatto all’estremità della mascella superiore. La maggior parte dei tubi di carnyx sono ottenuti da lamiere di bronzo martellinate, curvate e arrotolate su un’anima in legno o metallo. La scoperta di un vero e proprio bocchino in lega di rame, diritto e non curvato (come si pensava), rappresenta una novità assoluta: nessuna mboccatura di carnyx era mai stato riconosciuta finora e l’ignoranza di tale dato aveva provocato errori di ricostruzione. Coi materiali trovati, gli archeologi hanno restituito il carnyx più completo sino a oggi conosciuto, alto 1,80 m, di 2 Kg di peso. È composto da varie parti, prodotte separatamente e poi assemblate. L’elemento principale, lungo 74 cm, comprende il padiglione a testa di cinghiale unito alla parte superiore, curvata a gomito, del tubo lineare. Si notano particolari decorativi: lunghe nervature curvilinee sulla mascella a simulare la muscolatura, denti cesellati e una lacrima sotto gli occhi, una cavità in cui s’è rilevata della lignite. Sotto, un anello in bronzo fuso univa padiglione e tubo. Sulla parte alta della testa, fra le orecchie, un pezzo di bronzo alloggia una lamina traforata che riproduce il dorso del cinghiale e s’inserisce fra i due gusci del padiglione. Le lamiere sono di basso spessore (0,5-1,3 mm), modellate per deformazione plastica, ricorrendo alla martellinatura per dar forma ai rilievi e alla cesellatura per le decorazioni. Le parti sono assemblate con tecniche diverse: a brasatura con lega Sn-Pb, a fasciettatura o a incastro, attraverso anelli e raccordi.
IL DIO-CINGHIALE : E' UNA METAMORFOSI DI LUGH? Presso i Celti troviamo anche degli dei-cinghiale: il Mercurius Moccus, venerato presso i Lingoni, e Arduinna, divinità femminile della foresta delle Ardenne. Teonomini che risalgono all’epoca gallo-romana, successiva alla sconfitta delle popolazioni celtiche da parte delle legioni romane (I secolo a.C.-I secolo d.C. in Gallia e Britannia). In quest’epoca, per la prima volta, la funzione del cinghiale come importante soggetto di culto viene esplicitata attraverso nomi divini ad esso collegabili. Mercurius Moccus. Tale divinità potrebbe essere stata associata alla caccia, come il Mercurius Artaios. Moccus è il termine gallico per maiale o cinghiale e quindi il Mercurius Moccus potrebbe esser stato il protettore dei cacciatori di cinghiale per la tribù dei Lingoni, dove esso era invocato, nel loro principale sito, Langres. Da notare che nel periodo gallo-romano Mercurio fu la principale divinità nelle Gallie e in Britannia, normalmente associata alla somma divinità celtica Lugh, il “luminoso”. In effetti il Mercurio celtico assume localmente molti e diversificati appellativi indigeni. Arduinna. È il nome attribuito alla divinità protettrice della foresta delle Ardenne, nota per una statuina bonzea che la rappresenta a cavallo di un cinghiale in corsa con un coltello da caccia nella sua destra: si configura dunque come una divinità cacciatrice, rappresentativa dello spirito della foresta e protettrice di tutti i suoi abitanti, siano essi cacciatori o prede cacciate. In tale prospettiva questa divinità sembrerebbe essere ambigua, proteggendo sia i cacciatori umani che i cinghiali, loro prede. Probabilmente la concezione celtica era simile al sistema di credenze di certe tribù pellerossa nord-americane che concepivano la caccia come pratica accettabile fin tanto che era condotta con rispetto dell’animale e l’animale acconsentiva ad essere ucciso: solo in tal modo l’armonia della natura era mantenuta e la tribù avrebbe potuto avere sempre nuove prede. Un altro paio di attestazioni archeologiche, seppur anonime, sembrano suffragare l’esistenza della figura di un dio-cinghiale. A Reichshoffen, nei pressi di Strasburgo, una pietra intagliata rappresenta una divinità che tiene un piccolo maialino sotto il suo braccio. La statua di Euffigneix (Haute-Marne), alta circa 30 cm., è costituita invece da un blocco parallelepipedo in pietra, grezzamente scolpito, a rappresentare un busto umano sormontato da una testa e recante alcune caratteristiche tipicamente celtiche: intorno al collo porta un massiccio torques con terminazioni a tampone, ciascun lato del blocco reca inciso un grande occhio. Ma l’aspetto più interessante è rappresentato dall’incisione, per tutta l’altezza del busto, di un grande cinghiale dalle setole dorsali erette e con il muso posto frontalmente alla faccia. Il nome di questa divinità non è noto, ma probabilmente si tratta di una divinità della caccia collegata ai cinghiali e alla foresta. La scultura può anche rappresentare un’azione di metamorfosi, il cambiamento dalla forma umana alla forma animale cui spesso le divinità celtiche indugiano, come apprendiamo dai testi medievali vernacolari. I grandi occhi umani donano alla scultura un’aurea speciale, forse volendo mostrare la potenza della divinità che tutto vede o forse dal significato apotropaico. La statua è datata al II-I secolo a.C. In conclusione, per la studiosa M. Riemschneider “il dio-cinghiale non può essere nient’altro che il dio principale Lugh”, ipotesi avvalorata da numerosi altri studiosi per via dell’associazione fra il Mercurio gallo-romano e il Lugh celtico.
CINGHIALI NELLE STELE DEI PITTI DI SCOZIA I Pitti abitavano i territori del nord della Scozia, oltre i fiumi Forth e Clyde, e sono per la prima volta citati dalle fonti scritte nel 297 d.C. nel panegirico del poeta latino Eumenio. La loro etnogenesi non è chiara e la loro origine non è univocamente accettata da tutti gli studiosi, divisi tra chi li ritiene una popolazione preesistente l’arrivo degli Indoeuropei e chi invece li crede un popolo celtico. Linguisticamente sono note soltanto venticinque iscrizioni in alfabeto ogham provenienti dall’area di insediamento dei Pitti e queste depongono a favore di una lingua non indoeuropea, benché alcune di esse evidenzino nomi o etimologie celtiche (tra cui la parola MAQQ=’figlio di’). L’alfabeto ogham è un complesso sistema di scrittura inventato dai Celti Gaelici in Irlanda intorno al IV secolo d.C., diffuso anche presso i Pitti che lo usarono per notare la propria lingua. Ma l’aspetto più rilevante della cultura materiale dei Pitti sono le stele monumentali, intagliate e istoriate, che offrono una notevole testimonianza della loro abilità artistica. Una caratteristica unica dello stile artistico dei Pitti è la realizzazione di un sistema di simboli il cui significato sfugge ancora alla nostra comprensione. Questi particolari simboli hanno nomi arcani attribuiti dagli archeologi, come il “doppio disco con asta a Z” o la “mezzaluna con asta a V’. Lo specchio, il serpente all’interno dell’asta a Z e la doppia mezzaluna sono altri simboli ricorrenti nelle poco più di duecento loro stele sino a oggi censite. Cronologicamente, la più antica risale alla metà del VI secolo d.C. mentre questi simboli appaiono anche nelle produzioni più tarde che accompagnano anche le croci cristiane fittamente istoriate (fine VIII-inizio IX secolo d.C.). In queste stele compaiono immagini singole oppure articolate in scene di processioni rituali, caccia e battaglie, accompagnate da animali reali o fantastici. Tra esse, di notevole interesse è la stele di Knocknagael (Inverness, Highlands) detta “del cinghiale”: una lastra approssimativamente sbozzata, alta 2 m, che in alto reca il simbolo dello specchio e, sotto, un cinghiale. La parte circolare dello specchio è decorata con un cerchio concentrico e un punto centrale. Il cinghiale ha le setole del dorso erette e presenta delle curve spiraliformi sul corpo, nel caratteristico stile pitto. Proprio la presenza della criniera dorsale avvicina il disegno alle rappresentazioni tipiche dei Celti. L’origine e il significato guerresco di questo simbolo - come quello d’altri animali quale il cervo, ricorrenti nell’arte delle stele - può esser quindi ricondotta alla tradizione celtica. La funzione di questa stele, recuperata non nella sua posizione originale, è incerta. Viene datata fra la fine del VII e gli inizi dell’VIII secolo. d.C. Il sito di Dunadd (Dùn Add, fortezza sul [fiume] Add: si noti l’attinenza del toponimo con i numerosi nomi di luogo derivanti dal celtico Dun e l’idronimo Adda, presenti nell’areale insubre), nell’Argyle, è un sito fortificato altomedievale che si eleva sopra un’isolata collina, che si ipotizza esser stata la capitale del regno degli Scoti di Dalriada (anche se scavi ivi condotti hanno evidenziato un insediamento dell’età del Ferro). Sulla cresta rocciosa di fronte alla fortificazione sommitale del sito vi sono diverse incisioni. Esse comprendono un cinghiale inconfutabilmente in stile pitto, due o tre righe di una iscrizione ogham, una vasca circolare e un’impronta di piede. Il cinghiale è databile al 736 d.C., quando la capitale degli Scoti fu conquistata da Fergus, re dei Pitti. L’impronta e il bacino probabilmente marcano il luogo in cui i re scoti venivano incoronati. Il cinghiale misura 54 cm di lunghezza. Benchè la parte alta della figura sia alquanto corrosa, una lunga cresta eretta, un orecchio, un occhio e delle corte zanne sono ancora evidenti e una piccola coda, come nel cinghiale di Knocknagael, segue il profilo curvilineo dell’ultima zampa posteriore.
IL MIO NOME È' ... CINGHIALE Numerose iscrizioni si trovano su vasellame ceramico, ornamenti metallici, monete, steli e lapidi funerarie, rinvenute nel nostro territorio, soprattutto in necropoli e in misura minore in insediamenti, e variamente datate, dall’età del Ferro al I-II secolo d.C. Nei secoli prima della nascita di Cristo nell’areale insubre si manifestano due culture materiali celtiche, quella di Golasecca, autoctona (IX secolo a.C.-350 a.C.), e quella di origine transalpina di La Tène (450 a.C.-1 a.C.). L’alfabeto utilizzato in questi periodi a partire già dalla fine del VII secolo a.C. è quello di Lugano, derivato dall’etrusco e usato per esprimere una lingua celtica indigena definita dagli studiosi “leponzio” e, dal III secolo a.C., il gallico. Ma anche durante la romanizzazione (II-I secolo a.C.) l’uso del leponzio e dell’alfabeto indigeno acquista nuovo vigore, mentre nel I secolo a.C inizia a diffondersi l’alfabeto latino. Queste preziose iscrizioni ci permettono di conoscere i nomi portati dai Celti, trattandosi spesso di attestazioni di proprietà degli oggetti su cui sono riportate o di dediche epigrafiche o votive. Molti nomi sono caratterizzati da una spiccata espressività, rappresentando in tal modo la testimonianza più viva del carattere dei Celti, fuori dagli stereotipi tramandati dalle fonti storiche greco-latine. E la radice gallica moco/mocco (con genitivo in - onis) = cinghiale/maiale è usata dai Celti non solo come teononimo o appellativo di divinità ma anche come antroponimo maschile. Questo fenomeno lo si constata anche nell’areale insubre, da dove provengono alcune attestazioni in alfabeto latino di questo nome. Il dato è importante perché dimostra la lunga sopravvivenza dell’onomastica indigena anche nei secoli successivi all’arrivo dei Romani in Insubria, comunque caratterizzato dalla sottoscrizione di foedera aequa tra lo stato romano e le strutture politico-amministrative delle popolazioni celtiche, che tra l’atro prevedevano esplicitamente la clausola del mantenimento degli autoctoni (veteribus incolis manentibus). La continuità latina di molti nomi indigeni nell’epigrafia romana documenta l’assunzione molto graduale di un’onomastica propriamente romana che risulta generalizzata solo dopo il II secolo d.C. nella regione di Oleggio (NO), proviene l’iscrizione in lettere latine MOC, abbreviazione che si risolve facilmente ricorrendo appunto al nome Mocco, forse con collegamenti a un appellativo Moccus riferito a teonimi (si veda la dedica Tinco Mocco di Crevola d’Ossola e il deo Mercurio Mocco dei Lingoni di Langres) e con la frequente rappresentazione del cinghiale in insegne come animale sacro, particolarmente nell’ambito insubre. L’iscrizione è concordemente assegnata agli inizi del I secolo a.C. Sempre dallo stesso sito novarese, dalla tomba 180, provengono - dal fondo e dalla parete esterna di una patera in terra sigillata italica di età giulio-claudia - le iscrizioni in alfabeto latino MOC e VINOC. FAVI, per la prima della quale valgono le stesse conclusioni sopra riportate. Altre attestazioni provengono sempre dall’area a ovest dell’asse Ticino-Verbano, dalla provincia di Verbania. Da Zoverallo, presso Intra, una rozza lapide reca un breve testo in lingua latina, databile tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C., che menziona un tal LEUCURO figlio di MOCONE (MOCONIS), così come da Pallanza, Chiesa di San Remigio, proviene l’iscrizione di I secolo d.C. che ricorda un VECCO figlio di MOCCONE (MOCCONIS).
UNA DEDICA AL DIO-CINGHIALE "TINCO MOCCO" Lungo la strada di valico del Sempione, poco a monte del ponte di Crevola d’Ossola, su una grande superficie rocciosa si legge la dedica Tinco Mocco, “a Tinco Mocco”. Si tratta probabilmente dello scioglimento di un voto sottinteso, legato alle difficoltà e ai pericoli del viaggio, e si adatta bene alla situazione di chi, dopo aver completato il tratto più impervio della traversata alpina, intravede il fondovalle. La datazione dell’iscrizione è probabilmente intorno al I secolo d.C., sulla base delle caratteristiche delle lettere, anche se con margini di incertezza. Particolare è nella dedica la menzione del dio Tincus. Si tratta dell’antico dio germanico Thing, paragonabile a Marte, dio dei giuramenti e degli armati riuniti in assemblea. Confrontabile a questa iscrizione è la menzione del dio come Marte Tincsus negli altari del santuario circolare dei legionari della popolazione germanica dei Tuihanti, a Housesteads (Borcovicium) presso il Vallo di Adriano. L’iscrizione è del periodo di Alessandro Severo (222-235 d.C.). Il secondo termine del testo, Mocco, è invece il nome celtico del dio-cinghiale, simbolo di furore e coraggio guerriero, probabilmente la divinità locale cui viene assimilato per scrupolo religioso il dio “straniero” Tinco, oggetto della devozione personale del dedicante. Una situazione di analoga ambiguità è rappresentata da una dedica simile a Langres, in Francia a nord di Digione: deo Mercurio Mocco. Colui che tracciò la dedica sulla roccia potrebbe essere stato un Germano, forse reclutato per le legioni come frequentemente è attestato in età giulio-claudia, che esprime la gratitudine alla propria divinità (Tinco) senza dimenticare i numi tutelari della regione in cui si trova (Mocco). Le fonti storiche latine ci dicono infatti che il cinghiale era, in particolare, l’animale sacro degli Insubres, e tale sacralità sembra emergere anche nella particolare diffusione e predilezione dei guerrieri insubri per il nome personale Mocco/Mocone. Ben due patere dalla necropoli di Oleggio recano graffito in alfabeto leponzio il nome personale Mocco, che compare anche in una iscrizione vascolare di Gravellona Toce. Lo stesso nome è documentato su epigrafi funerarie in alfabeto latino rinvenute a Verbania-Pallanza e a Zoverallo, a testimonianza del perdurare nei secoli del culto per il diocinghiale, che si ritrova in epoca romana e anche oltre…
IL CINGHIALE, "MARCHIO" DEI GUERRIERI INSUBRI Numerosi esemplari di spade rinvenute in corredi tombali di guerrieri in territorio insubre (Magenta, Nosate, Oleggio), ma anche in territorio celtico svizzero, recano nella parte superiore della lama un marchio rettangolare nel quale si riconosce la figura di un cinghiale, tra le cui zampe si dispongono talvolta tre elementi circolari a formare un triangolo, forse rappresentazione schematica della triscele, motivo decorativo e simbolico celtico per eccellenza. Ai marchi impressi sulle spade viene in genere attribuito un significato magico e totemico, collegato all’animale scelto, il cinghiale, simbolo del furor guerriero e considerato attributo e rappresentazione della principale divinità del pantheon celtico, il dio Lugh-Mercurio. Mentre purtroppo non si conoscono con precisione i contesti di ritrovamento delle spade lombarde, conservate nelle Civiche raccolte archeologiche di Milano, i materiali di Oleggio, frutto di recenti scavi coordinati dalla Soprintendenza Archeologica del Piemonte, sono stati approfonditamente studiati. Il contesto di rinvenimento della spada con marchio a forma di cinghiale di Oleggio è per questo particolarmente interessante. La splendida arma era contenuta in una ricca sepoltura (la tomba n. 53), insieme al suo fodero e ad altri elementi della panoplia celtica: la lancia, l’umbone, elemento centrale di rinforzo dello scudo, e il coltellaccio. Accompagnava l’insieme anche uno spiedo per arrostire le carni, oggetto che documenta la pratica del banchetto funerario e che, come si rileva dal frequente ritrovamento (anche nella stessa necropoli di Oleggio) di resti ossei di maiale/cinghiale, prevedeva in genere proprio la preparazione e il consumo della carne dell’animale sacro. Infine completavano il ricco corredo numerosi contenitori ceramici: ollette, bicchieri e patere. Proprio una patera, ampio piatto per il consumo dei cibi, recava graffita l’iscrizione rikanas, che viene interpretata come “della regina”. La particolarità di questa iscrizione al femminile ha indotto ad approfondire l’analisi dei resti ossei del defunto cremato contenuti nella sepoltura, risultati appartenenti ad un individuo di probabile sesso femminile. Ci troviamo quindi probabilmente di fronte alla tomba di una regina guerriera celta. La presenza di una donna con tale ruolo non è affatto isolata nel mondo celtico, ma si inserisce nel quadro di tutta una serie di attestazioni documentate dalla storiografia romana per i Celti d’Oltralpe, quali in particolare quelle relative alla regina guerriera britannica Boudicca, che a lungo guidò le schiere del suo popolo, gli Iceni, contro gli invasori romani nella prima metà del I secolo d.C. Il cinghiale, in quanto simbolo di furore bellico, poteva dunque essere adottato come icona tanto dagli uomini quanto dalle donne che ricoprissero un ruolo di prestigio come capi villaggio e condottieri militari.
MILANO: IL MITO DELLA "SCROFA SEMILANUTA" Gli Insubri sono ricordati dalle fonti storiche greco-romane (Polibio, Strabone) come la più importante tribù celtica stanziata a nord del Po e Mediolanon come il loro principale centro. I ritrovamenti archeologici mostrano l’esistenza di un nucleo abitato golasecchiano intorno al 450 a.C. esteso su circa 12 ettari, ma è Tito Livio (V.34) a parlarci di Ambigato, potente re dei Biturigi, che inviò i nipoti Segoveso e Belloveso, al seguito di un’imponente massa di uomini, là dove i druidi lo avessero indicato. A Segoveso toccò in sorte la Selva Ercinia, a Belloveso fu indicata la via delle Alpi. I Celti attraversarono le Alpi, sconfissero gli Etruschi non lontano dal fiume Ticino e ivi appresero di trovarsi nel paese degli Insubri, lo stesso nome di un cantone (pagus) degli Edui, una delle tante tribù al seguito. Ritenendo ciò di buon auspicio, Belloveso vi fondò la città di Mediolanon. I precisi riferimenti cronologici introdotti nel racconto da Livio (tutti questi fatti avvennero con Tarquinio Prisco regnante a Roma, 616-579 a.C., e durante la fondazione della colonia focese di Massalia/Marsiglia, nel 600 a.C. circa.) permettono di collocare la fondazione di Milano intorno al 600 a.C. Benché il toponimo Mediolanon sia facilmente risolvibile in gallico come composto da medio- (centro) e lanon- (pianura) col significato di “luogo al centro della pianura”, Le Roux e Guyonvarc’h ne hanno ipotizzato anche un significato religioso-rituale quale “centro di pienezza”, sulla base di affinità semantiche fra lanon- e lanos (pieno), con riferimento al concetto di centro sacro, omphalos, comune nell’ideologia e nella concezione spaziale dei Celti. Una diversa tradizione, legata al cinghiale, appare nel periodo tardo-antico col poeta Claudio Claudiano che nel 398 d.C., in una composizione per le nozze dell’Imperatore Onorio, celebrate a Milano, scrisse a proposito della città: “presso le mura fondate dai Galli che mostrano una pelle di scrofa lanuta”. Sidonio Apollinare nel 440 d.C. esprime lo stesso concetto: Milano “prende nome dalla scrofa semilanuta”. Tale tradizione si basa sull’assonanza fra il toponimo e il nome della scrofa per metà lanuta in latino, suis medio lanea. Circa un secolo dopo, Isidoro da Siviglia in Etymologiarum sive originum liber (XV.57) introdusse il concetto del ritrovamento in loco della scrofa lanuta: “I Galli, afflitti da lotte intestine e continue controversie, andarono in cerca di nuovi luoghi ove insediarsi a seguito di profezie in Italia, trovando gli insediamenti con l'espulsione degli Etruschi, fondando Milano e altre città. Milano ricevette questo nome perchè venne lì rinvenuta una scrofa semilanuta.” Andrea Alciati (1492-1550), umanista milanese, relazionò la narrazione liviana con tale tradizione tardoimperiale e scrisse che Belloveso chiese a sette sapienti dove fondare la nuova città e come dovesse chiamarla, ricevendo in risposta che ciò sarebbe accaduto quando avesse trovato una scrofa ricoperta di lana, onde il nome di Mediolanum. Fu dunque il cinghiale a indicare il luogo ove fondare la città. Ancora Alciati, negli Emblemata (1531), narra che il toponimo Mediolano, stando a una testimonianza di Sant’Ambrogio, fu attribuito proprio perché durante gli scavi di fondazione della città venne dissotterrato un simulacro di una scrofa semilanuta. La fortuna di questa tradizione nel Medioevo è ben rappresentata dal bassorilievo marmoreo sulla facciata del Broletto a Milano, ove appare la scrofa semilanuta accosciata, per il De Marchi emblema medievale della città. Benché questa tradizione si basi, a quanto pare, formalmente su un’interpretazione latina del nome di Milano, essa è facilmente ricollegabile al significato simbolico del cinghiale per i Celti.
IL MAIALE-CINGHIALE NELLA TRADIZIONE POPOLARE È indubbio che il significato magico-religioso del cinghiale si mantenne nel Medioevo, anche dopo la Cristianizzazione che comportò la sua demonizzazione come simbolo delle peggiori pulsioni. Si diceva che i re Merovingi avessero la spina dorsale coperta di setole come i maiali: secondo Teofano avevano il soprannome di “schiena pelosa” o “setolosi”. Il culto celtico nei confronti degli animali è, con significati e modalità degradate nel folklore popolare, passato alle figure dei santi cristiani. I più noti sono San Martino di Tours con il suo cavallo, Sant’Antonio Abate con campana e maiale, San Gallo e San Colombano accompagnati dall’orso. Molto spesso troviamo anche il cervo, come nel caso di Sant’Egidio. Come arguito da M. Riemschneider, “non esiste un solo dio pagano che non abbia trovato la sua resurrezione in un santo cristiano”. La festa di Sant’Antonio Abate (Sant’Antoni del purscell nella tradizione padana) si celebra il 17 gennaio ed era particolarmente sentita nel mondo rurale con l’accensione di grandi fuochi e la pulizia e la benedizione del bestiame. L’effige del santo era spesso collocata sulla porta delle stalle. Nell’iconografia tradizionale il santo è rappresentato con bastone a forma di tau recante dei campanelli e un docile maiale ai suoi piedi, nell’accezione cristiana simbolo del Maligno. Nelle leggende fiorite intorno alla sua figura il maiale svolge una parte del tutto secondaria, ciononostante è diventato attributo del santo. Ciò si spiega col fatto che la religiosità popolare, allorchè cerca un sostituto alle sue concezioni comunque presenti, non si preoccupa di logicità o verità storica ma trasferisce “casualmente” a un santo attributi che le sono familiari. Il cinghiale divino per i Celti si collega anche alla simbologia dei capelli per via della collottola setolosa, a essi assimilabile (il cinghiale Trwyth porta tra le orecchie un rasoio, una forbice e un pettine per far fronte a enigmatiche esigenze cosmetiche) ed è per questo che Sant’Antonio Abate è il protettore dei fabbricanti di spazzole che utilizzavano le setole suine per realizzare prodotti destinati alla pulizia. Nella tradizione egli si occupa della guarigione di tutte le malattie legate all’epidermide e al cuoio capelluto: pustole, bubboni, foruncoli, ignis sacer. Nel Liber Landavensis (Il libro di Llan Dâv), testo gallese del XII secolo sulla vita di alcuni santi celtici, si legge che un angelo apparve a San Dubricius/Dyfrig (465-550 ca.) e gli disse che ovunque avesse trovato una femmina di cinghiale bianca sdraiata coi suoi piccoli, lì avrebbe dovuto costruire una chiesa in onore della Trinità. Ciò avvenne nel luogo dove il santo viveva coi suoi discepoli, su un’isola che chiamò Mochros ovvero locus porcorum (in gallese mockros è la boscaglia in cui si alimenta il maiale), toponimo che si collega al gallico mocco. Nell’Herefordshire si trova la località di Moccas, ove fu edificata una chiesa dedicata a San Michele che la tradizione attribuisce proprio a Dubricius. Il toponimo trova il corrispondente irlandese in Muckross, celebre per l’antica abbazia (a.irl. mucc = maiale/cinghiale). Dalle agiografie emerge come a numerosi santi celtici il luogo ove erigere un edificio sacro fosse mostrato proprio da un cinghiale selvatico. Evidentemente la sacralità del cinghiale presso i Celti pre-cristiani venne così rielaborata dalla nuova religione che si andava diffondendo. Nella tradizione celtica maiale, birra e idromele danno accesso all’eternità e sono alla base dei banchetti rituali della festa di Samonios/Samhain che segna l’inizio del nuovo anno e spalanca le porte dell’Aldilà, convenzionalmente fatta cadere il 1° novembre e rimasta nella liturgia cristiana con significato immutato. In alcune aree di Alto Milanese e Varesotto vi è l’usanza di mangiare la cassoeula (verze e carne di maiale) nel Dì di Mort. Nel Glossario di Cormac, scritto dal filí Cormac mac Cuileannáin (836-908) si legge: “A Samain: birra, cavoli e latte cagliato”. Anche il cavolo era, col maiale, cibo rituale per i Celti nella festa più importante dell’anno.
Depliant mostra Scrofa Lanuta

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16/06/2025, 17:51

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